Domenica scorsa sono intervenuto a un incontro di Isaac Abeliovas, che mi aveva chiesto un intervento sulla "Tragedia delle separazioni".
Sono infatti molte le persone che si rivolgono a lui per crisi familiari, per rotture tra coppie più o meno giovani, dai fidanzati a chi ha qualche lustro di matrimonio alle spalle.
Il tema è molto interessante, ma innanzi tutto porrei un punto interrogativo alla fine del titolo: "Tragedia delle separazioni?" La mia risposta è "No!". Non sono d'accordo nel chiamare tragedia una separazione, è uno stravolgere la lingua italiana nel definire quanto è accaduto, ma anche una realtà che va guardata in ben altro modo. Sarei stato d'accordo nel titolare "Sofferenza delle separazioni", ma non "tragedia".
La sofferenza è spesso implicita nella rottura di un rapporto, nella separazione da una persona come da una cosa... Ma, come dice il sottotitolo di questo blog, "Cambia il modo di guardare le cose e le cose che guardi cambieranno".
Primo punto: la separazione, la rottura avviene quando un modo di vivere non è più sopportabile. Bisogna allora chiedersi se questo rapporto era nutritivo, o se invece era semplicemente un rifugio, la risposta a un bisogno di entrambi i membri della coppia... Se è così, quando una persona supera questo bisogno o quando non regge più alla richiesta data dal bisogno del partner, allora la coppia scoppia. Ma creare una coppia sulla base dei propri bisogni è costruire sulle sabbia mobili. Amore è dare senza aspettative, se amo l'altro perché ne ricevo qualcosa, non sono nell'amore...
Un secondo punto: la sofferenza è spesso data dall'idea di non potere più sostituire il partner, dalla paura di non poter essere più amati, in definitiva, da una autostima che è meno di zero.
La chiave per uscirne è ritrovare la fiducia in se stessi, l'autostima che non abbiamo realmente mai avuto.
E allora entra in gioco la Fede. Quante volte abbiamo sentito dire e ci siamo sentiti dire che "siamo figli di Dio"? un'infinità! Ma ci abbiamo davvero mai pensato? Lo crediamo veramente?
Recitiamo il Padre nostro "a macchinetta", senza pensare a quanto diciamo, senza parlare "davvero" con nostro Padre.
Se il Signore è nostro Padre, è possibile che abbia preparato qualcosa di meno che buono per un proprio figlio? Può Dio essere un Padre degenere? Chiaramente no!
Il pensiero da fare, allora, è, come il nome di questo blog, "Gam Zu Le Tovà" (Anche questo è per il bene) e accettare quello che accade con la sicurezza che non ci viene dato nulla che non possiamo sopportare e che tutto, sia pure in una prospettiva che nel dolore non riusciamo a vedere, è per un futuro migliore per noi.
Lo so, è difficile arrivare a dire "Gam Zu Le Tovà" in certi momenti, ma lo è proprio perché non sappiamo più parlare col Padre direttamente e ci affidiamo ad altri che fungono da intermediari.
E' necessario ricordare di rivolgerci direttamente a Lui per chiedere.
Ma chiedere che cosa? Un ritorno, una riappacificazione? Un nuovo amore?
Chiedere di vedere più chiaramente il nostro prossimo passo, che necessariamente è imparare ad amare se stessi.
Se nemmeno io mi amo, come posso pensare che possa farlo qualcun altro?
"Ama il prossimo tuo come te stesso", ma se non amo me stesso, che amore ho per il mio prossimo?
Il nostro "prossimo passo" è riappropriarci di noi stessi, della nostra autostima, il vedere, finalmente, quanto valiamo e quanto siamo importanti
Se siamo figli di Dio (e lo siamo), siamo davvero importanti, per Lui e per noi, e anche nel dolore di una separazione dobbiamo ripetere, come un mantra, "Ayn Tovà", ricordando l'occhio "benevolo" del Padre che ci condurrà a un buon risultato.
Behazlahà! (con successo!)